In Other Words by Jhumpa Lahiri


  A Roma non ho ancora amici. Ma non ci vado per far visita a qualcuno. Vado per cambiare strada, e per raggiungere la lingua italiana. A Roma l’italiano può accompagnarmi ogni giorno, ogni minuto. Sarà sempre presente, rilevante. Cesserà di essere un interruttore da accendere talvolta, poi spegnere.

  Per prepararmi, decido, sei mesi prima della partenza, di non leggere più in inglese. D’ora in poi, mi impegno a leggere soltanto in italiano. Mi sembra giusto, distaccarmi dalla mia lingua principale. La ritengo una rinuncia ufficiale. Sto per diventare un pellegrino linguistico a Roma. Credo sia necessario che mi lasci alle spalle qualcosa di familiare, di essenziale.

  A un tratto tutti i miei libri non mi servono più. Sembrano oggetti qualsiasi. Sparisce l’ancora della mia vita creativa, recedono le stelle che mi guidavano. Vedo, davanti a me, una stanza nuova, vuota.

  Ogni volta che posso, nello studio, sulla metropolitana, a letto prima di dormire, mi immergo nell’italiano. Entro in un altro territorio, inesplorato, lattiginoso. Una specie di esilio volontario. Sebbene mi trovi ancora in America, mi sento già altrove. Mentre leggo mi sento un’ospite, felice ma disorientata. Come lettrice non mi sento più a casa.

  Leggo Gli indifferenti e La noia di Moravia. La luna e i falò di Pavese. Le poesie di Quasimodo, di Saba. Riesco a capire e al contempo non capire. Rinuncio alla perizia per sfidarmi. Baratto la certezza con l’incertezza.

  Leggo con lentezza, con scrupolo. Con difficoltà. Ogni pagina sembra leggermente coperta dalla foschia. Gli impedimenti mi stimolano. Ogni nuova costruzione sembra una meraviglia. Ogni parola sconosciuta, un gioiello.

  Faccio un elenco di termini da controllare, da imparare. Imbambolato, sbilenco, incrinatura, capezzale. Sgangherato, scorbutico, barcollare, bisticciare. Dopo aver terminato un libro, mi emoziono. Mi pare un’impresa. Trovo il processo più impegnativo, eppure più soddisfacente, quasi miracoloso. Non posso dare per scontata la mia capacità di farlo. Leggo come facevo da ragazzina. Così da adulta, da scrittrice, riscopro il piacere di leggere.

  In questo periodo mi sento una persona divisa. La mia scrittura non è che una reazione, una risposta alla lettura. Insomma, una specie di dialogo. Le due cose sono strettamente legate, interdipendenti.

  Adesso, però, scrivo in una lingua, mentre leggo esclusivamente in un’altra. Sto per ultimare un romanzo, per cui sono per forza immersa nel testo. Non è possibile abbandonare l’inglese. Tuttavia, la mia lingua più forte sembra già dietro di me.

  Mi viene in mente Giano bifronte. Due volti che guardano allo stesso tempo il passato e il futuro. L’antico dio della soglia, degli inizi e delle fini. Rappresenta i momenti di transizione. Veglia sui cancelli, sulle porte. Un dio solo romano, che protegge la città. Un’immagine singolare che sto per incontrare ovunque.

  LEGGERE CON IL DIZIONARIO

  Di solito quando leggo in italiano non uso il dizionario. Solo una penna per sottolineare le parole che non conosco, le frasi che mi colpiscono.

  Quando incontro una nuova parola viene il momento di decidere. Potrei fermarmi un attimo per impararla subito, potrei segnarla e andare avanti, oppure ignorarla. Come certi volti tra la gente che si vede ogni giorno per la strada, alcune parole, per qualche ragione, risaltano, quindi lasciano un’impressione su di me. Altre restano sullo sfondo, trascurabili.

  Dopo aver finito un libro torno al testo per controllare assiduamente le parole. Mi siedo sul divano su cui sono sparsi il libro, il taccuino, alcuni dizionari, una penna. Richiede tempo, questo mio incarico zelante e rilassante. Non scrivo le definizioni in margine. Faccio un elenco sul taccuino. Prima, le definizioni erano in inglese. Ormai sono in italiano. Così creo una specie di dizionario personale, un vocabolario privato che traccia il percorso della mia lettura. Di tanto in tanto sfoglio il taccuino per ripassare le parole.

  Trovo che questa lettura sia più intima, più intensa di quella in inglese, precisamente perché io e la nuova lingua ci conosciamo da poco. Non veniamo dallo stesso posto, dalla stessa famiglia. Non siamo cresciute una accanto all’altra. Nel sangue, dentro le ossa, questa lingua non c’è. Nei confronti dell’italiano, sono attratta e al contempo intimidita. Resta un mistero, amato, impassibile. Di fronte alla mia emozione, non reagisce.

  Le parole sconosciute mi ricordano che c’è tanto che non conosco in questo mondo.

  Talvolta una parola può suscitare una reazione bizzarra. Un giorno, per esempio, scopro il termine claustrale. Posso azzardare il significato ma vorrei esserne certa. Mi trovo sul treno. Controllo il dizionario tascabile. La parola non c’è. Sono all’improvviso presa, stregata da questa parola. Voglio conoscerla subito. Finché non la capirò mi sento vagamente irrequieta. Per quanto sia un’idea irrazionale, sono convinta che scoprire cosa vuol dire possa cambiare la mia vita.

  Credo che ciò che può cambiare la vita esista sempre al di fuori di noi.

  Dovrei sognare un giorno, in futuro, in cui non mi serviranno più il dizionario, il taccuino, la penna? Un giorno in cui poter leggere in italiano senza gli attrezzi, così come leggo in inglese? Non dovrebbe essere l’obiettivo di tutto questo?

  Penso di no. In italiano sono una lettrice più attiva, più coinvolta, anche se più inesperta. Mi piace lo sforzo. Preferisco le limitazioni. So che mi serve, in qualche modo, la mia ignoranza.

  Nonostante le limitazioni, mi rendo conto di quanto l’orizzonte sia sconfinato. Leggere in un’altra lingua implica uno stato perpetuo di crescita, di possibilità. So che il mio lavoro, da apprendista, non finirà mai.

  Quando ci si sente innamorati, si vuole vivere per sempre. Si vagheggia che l’emozione, l’entusiasmo che si prova, duri. Leggere in italiano mi provoca una brama simile. Non voglio morire perché la mia morte significherebbe la fine della mia scoperta della lingua. Perché ogni giorno ci sarà una nuova parola da imparare. Così il vero amore può rappresentare l’eternità.

  Ogni giorno, leggendo, trovo delle parole nuove. Qualcosa da sottolineare, poi trasferire sul taccuino. Mi fa pensare al giardiniere che strappa le erbacce. Così come il giardiniere, so che il mio lavoro in fin dei conti è una follia. Qualcosa di disperato. Quasi, direi, una fatica di Sisifo. Non è possibile, per il giardiniere, controllare alla perfezione la natura. Allo stesso modo non mi è possibile conoscere, per quanto voglia, ogni parola italiana.

  Ma tra me e il giardiniere c’è una differenza sostanziale. Le erbacce, per il giardiniere, non sono qualcosa di desiderato. Sono da sradicare, da buttar via. Io invece raccolgo le parole. Voglio tenerle in mano, voglio possederle.

  Quando scopro un modo diverso per esprimermi provo una specie di estasi. Le parole sconosciute rappresentano un abisso vertiginoso, fecondo. Un abisso che contiene tutto ciò che mi sfugge, tutto il possibile.

  IL RACCOLTO DELLE PAROLE

  Sono di continuo a caccia di parole.

  Descriverei il processo così: ogni giorno entro in un bosco con un cestino in mano. Trovo le parole tutt’attorno: sugli alberi, nei cespugli, per terra (in realtà: per la strada, durante le conversazioni, mentre leggo). Ne raccolgo quante più possibile. Ma non bastano, ho un appetito insaziabile.

  Raccolgo sia quelle che mi sembrano oscure (sciagura, spigliatezza) sia quelle che riesco facilmente a capire ma vorrei conoscere meglio (inviperito, stralunato). Raccolgo delle belle parole che non hanno equivalenti in inglese (formicolare, chiarore). Raccolgo una valanga di aggettivi (malmesso, plumbeo, impiastricciate) per descrivere migliaia di situazioni. Raccolgo innumerevoli sostantivi e avverbi che non mi serviranno mai.

  Alla fine della giornata il cestino è pesante, traboccante. Mi sento carica, arricchita, frizzante. Sembrano più preziose dei soldi, le mie parole. Mi sento una mendicante che scopre un mucchio d’oro, un sacco di gemme.

  Ma quando esco dal bosco, quando vedo il cestino, rimane appena una manciata di parole. La maggior parte sparisce. Evaporano nell’aria, colano come l’acqua tra le dita. Perché il cestino non è altro che la memoria, e la memoria mi tradisce, la memoria non regge.

  Sento un legame con ogni parola che raccolgo. Prov
o affetto, insieme a un senso di responsabilità. Quando non riesco a ricordarle, temo di averle abbandonate.

  Mi sento svuotata, abbattuta, come ci si sente la mattina dopo un sogno favoloso. Il bosco sembra un paradiso, un’allucinazione. Poi mi sveglio.

  Benché sconfitta, non mi sento troppo scoraggiata. Semmai, mi sento ancora più determinata. Il giorno dopo, ritorno nel bosco. Non credo che il mio progetto sia uno spreco di tempo. So che il bello è il gesto di raccogliere, non il risultato.

  Tuttavia non è sufficiente, neanche soddisfacente, radunare soltanto le parole sul taccuino. Voglio usarle. Voglio attingervi quando ne ho bisogno. Voglio entrare in contatto con loro. Voglio che diventino una parte di me.

  Ripasso le parole per impararle, per memorizzarle. Ci penso mentre dialogo con qualcuno. So che ci sono, scritte a mano sul taccuino. Se fossi un genio, ricorderei tutto, così potrei conversare in maniera molto più precisa, sciolta. Ma quando mi servono, le parole sono elusive, imprendibili. Esistono sulla pagina ma non entrano nel cervello, quindi non escono dalla bocca. Restano sul taccuino, incastrate, inutili. Mi accorgo solo del fatto di averle notate.

  Rileggendo il taccuino, mi rendo conto di certe parole che devo scrivere più di una volta, che resistono alla mia memoria. Semplici ma ostinate (fruscio, schianto, arguto, broncio), forse non vogliono avere alcun rapporto con me.

  Tutte le parole dentro il taccuino sono il segno di una crescita fisica, metodica. Mi vengono in mente le prime settimane di vita dei miei figli, un periodo in cui andavo dalla pediatra ogni settimana per controllare il loro peso. Ogni grammo è stato notato, valutato. Ciascuno è stato prova concreta della loro presenza sulla terra, della loro esistenza. La mia comprensione dell’italiano cresce in modo simile. Acquisisco il mio vocabolario giorno per giorno, parola per parola.

  Eppure, il mio lessico si sviluppa senza logica, in maniera guizzante, fugace. Le parole si presentano, mi accompagnano per un po’, poi, spesso senza preavviso, mi abbandonano.

  Il taccuino racchiude tutto il mio entusiasmo per la lingua. Tutto lo sforzo. Uno spazio in cui posso vagabondare, imparare, dimenticare, fallire. In cui posso sperare.

  IL DIARIO

  Arrivo a Roma con la mia famiglia, qualche giorno prima di ferragosto. Non conosciamo questa abitudine di partire in massa. Nel momento in cui quasi tutti scappano via, in cui quasi tutta la città è ferma, proviamo a iniziare un nuovo capitolo della nostra vita.

  Affittiamo un appartamento in via Giulia. Una strada elegantissima, a metà agosto desolata. Fa un caldo feroce, insopportabile. Quando usciamo per fare spese, cerchiamo, ogni due passi, il momentaneo sollievo dell’ombra.

  La seconda sera, un sabato, rientrando a casa la porta non si apre. Prima si apriva senza problemi. Ora, per quanto provi, la chiave non gira dentro la serratura.

  Non c’è nessuno nel palazzo eccetto noi. Siamo senza documenti, ancora senza un telefono funzionante, senza alcun amico o conoscente romano. Chiedo aiuto all’albergo di fronte al palazzo, ma neanche due dei loro impiegati riescono ad aprire la porta. I nostri padroni di casa sono in vacanza in Calabria. I miei figli, sconvolti, affamati, dicono piangendo che vogliono tornare subito in America.

  Alla fine viene un tecnico che apre la porta in un paio di minuti. Gli diamo più di duecento euro, senza fattura, per il servizio.

  Questo trauma mi pare sia una prova del fuoco, una sorta di battesimo. Ma ci sono parecchi altri ostacoli, piccoli ma scoccianti. Non sappiamo dove portare la differenziata, come comprare una tessera per i mezzi pubblici, dove fermano gli autobus. Tutto va imparato da zero. Se chiedessimo indicazioni a tre romani, ognuno dei tre ci darebbe una risposta diversa. Mi sento scombussolata, spesso schiacciata. Nonostante il mio grande entusiasmo per il fatto di vivere a Roma, ogni cosa sembra impossibile, indecifrabile, impenetrabile.

  Una settimana dopo essere arrivata, il sabato dopo quel sabato sera indimenticabile, apro il mio diario per descrivere le nostre disavventure. Quel sabato, faccio qualcosa di strano, inaspettato. Scrivo il diario in italiano. Lo faccio in modo quasi automatico, spontaneo. Lo faccio perché quando prendo la penna in mano, non sento più l’inglese nel cervello. In questo periodo in cui tutto mi confonde, tutto mi turba, cambio la lingua in cui scrivo. Inizio a raccontare, nel modo più impegnativo, tutto ciò che mi mette alla prova.

  Scrivo in un italiano bruttissimo, scorretto, imbarazzante. Senza controllo, senza dizionario, soltanto d’istinto. Vado a tentoni, come un bambino, come una semianalfabeta. Mi vergogno di scrivere così. Non capisco questo impulso misterioso che sbuca dal nulla. Non riesco a smettere.

  È come se scrivessi con la mano sinistra, la mia mano debole, quella con cui non devo scrivere. Sembra una trasgressione, una ribellione, una stupidaggine.

  Durante i primi mesi a Roma, il mio diario clandestino in italiano è l’unica cosa che mi consola, che mi dà stabilità. Spesso, a notte fonda, sveglia, inquieta, vado alla scrivania per comporre qualche paragrafo in italiano. È un progetto segretissimo. Nessuno sospetta, nessuno sa.

  Non riconosco la persona che sta scrivendo in questo diario, in questa nuova lingua approssimativa. Ma so che è la parte più schietta, più vulnerabile di me.

  Prima di trasferirmi a Roma scrivevo di rado in italiano. Tentavo di comporre qualche lettera a una mia amica italiana che vive a Madrid, qualche email alla mia insegnante. Sembravano esercizi formali, artificiali. Non sembrava la mia voce. In America non lo era.

  A Roma, però, scrivere in italiano sembra l’unico modo di sentirmi presente qui – magari di avere una connessione, soprattutto come scrittrice, con l’Italia. Il nuovo diario, per quanto imperfetto, per quanto crivellato di errori, rispecchia chiaramente il mio disorientamento. Riflette una transizione radicale, uno stato di smarrimento totale.

  Nei mesi prima di venire in Italia, cercavo un’altra direzione per la mia scrittura. Volevo un nuovo approccio. Non sapevo che la lingua che avevo studiato pian piano per parecchi anni in America mi avrebbe dato, alla fine, l’indicazione.

  Esaurisco un quaderno, ne comincio un altro. Mi viene in mente una seconda metafora: come se, poco attrezzata, scalassi una montagna. È una sorta di sopravvivenza letteraria. Non ho molte parole per esprimermi, tutt’altro. Mi rendo conto di uno stato di deprivazione. Eppure, al contempo, mi sento libera, leggera. Riscopro la ragione per cui scrivo, la gioia insieme all’esigenza. Ritrovo il piacere che provo fin da ragazzina: mettere delle parole in un quaderno, che nessuno leggerà.

  In italiano scrivo senza stile, in modo primitivo. Sono sempre in dubbio. Ho soltanto l’intenzione, insieme a una fede cieca ma sincera, di essere capita e di capire me stessa.

  IL RACCONTO

  Il diario mi fornisce la disciplina, l’abitudine di scrivere in italiano. Ma scrivere soltanto un diario equivale a rinchiudermi in casa, parlando con me stessa. Quello che vi esprimo resta una narrazione privata, interiore. A un certo punto, malgrado il rischio, voglio uscirne.

  Inizio con brevissimi pezzi, di solito non più di una pagina scritta a mano. Cerco di focalizzare qualcosa di specifico: una persona, un momento, un luogo. Faccio quello che chiedo ai miei studenti quando mi capita di insegnare scrittura creativa. Spiego loro che frammenti del genere sono i primi passi da fare prima di costruire un racconto. Credo che uno scrittore debba osservare il mondo reale prima di immaginarne uno inesistente.

  I miei pezzettini italiani non sono altro che inezie. Eppure lavoro sodo per tentare di perfezionarli. Do il primo pezzo al mio nuovo insegnante d’italiano a Roma. Quando me lo restituisce, sono mortificata. Vedo solo errori, solo problemi. Vedo una catastrofe. Quasi ogni frase va modificata. Correggo la prima bozza a penna rossa. Alla fine della lezione, la pagina contiene tanto inchiostro rosso quanto nero.

  Non ho mai tentato, da scrittrice, di fare qualcosa di così impegnativo. Trovo che il mio progetto sia talmente arduo che sembra quasi sadico. Devo ricominciare da capo, come se non avessi mai scritto nulla nella mia vita. Ma, per essere precisi, non mi trovo al punto di partenza: mi trovo invece in un’altra dimensione dove s
ono senza riferimenti, senza corazza. Dove non mi sono mai sentita così stupida.

  Anche se ormai parlo la lingua abbastanza bene, la lingua parlata non mi aiuta. Una conversazione implica una specie di collaborazione e, spesso, un atto di perdono. Quando parlo posso sbagliarmi ma, in qualche modo, riesco a spiegarmi. Sulla pagina sono sola. La lingua parlata è una specie di anticamera rispetto a quella scritta, la quale ha una propria logica, ancora più severa, più inafferrabile.

  Nonostante l’umiliazione, continuo. Per la lezione successiva, preparo qualcosa di diverso. Perché sepolto sotto tutti gli errori, tutti gli spigoli, c’è qualcosa di prezioso. Una nuova voce, grezza ma viva, da migliorare, da approfondire.

  Un giorno mi trovo in una biblioteca in cui non mi sento molto a mio agio, dove di solito non riesco a lavorare bene. Lì, a una scrivania anonima, mi viene in mente un racconto intero in italiano. Viene in un lampo. Ascolto le frasi nel cervello. Non so da dove vengano, non so come io riesca a sentirle. Scrivo in fretta nel quaderno; temo che tutto sparirà prima che io possa buttarlo giù. Tutto si dipana tranquillamente. Non uso il dizionario. Impiego circa due ore per scrivere la prima metà del racconto. Il giorno dopo ritorno alla stessa biblioteca per un altro paio d’ore, per terminarlo.

  Mi accorgo di una spaccatura, insieme a una nascita. Ne sono stordita.

  Non mi capita mai di scrivere un racconto in questa maniera. In inglese posso rimuginare quello che scrivo, posso fermarmi dopo ogni frase per cercare le parole giuste, per riordinarle, per cambiare mille volte idea. La mia comprensione dell’inglese è sia un vantaggio sia un intralcio. Riscrivo tutto come una pazza finché non mi soddisfa, mentre in italiano, come un soldato nel deserto, devo semplicemente andare avanti.

  Dopo aver ultimato il racconto, preparo una copia al computer. Per la prima volta lavoro sullo schermo in italiano. Le dita sono tese. Non sanno come muoversi sulla tastiera.

 
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