In Other Words by Jhumpa Lahiri


  Credo che tradurre sia il modo più profondo, più intimo di leggere qualcosa. Una traduzione è un bellissimo incontro dinamico tra due lingue, due testi, due scrittori. Implica uno sdoppiamento, un rinnovamento. Nel passato amavo tradurre dal latino, dal greco antico, dal bengalese. È stato un modo di avvicinarmi alle diverse lingue, di sentirmi legata ad autori lontanissimi da me, nello spazio e nel tempo. Tradurre me stessa, da una lingua in cui sono ancora un’apprendista, non è la stessa cosa. Dopo aver faticato per realizzare il testo in italiano mi sento appena sbarcata, stanca ma entusiasta. Voglio fermarmi, orientarmi. Il rientro, prematuro, mi fa male. Sembra una disfatta, un regresso. Sembra distruttivo anziché creativo, quasi un suicidio.

  A Capri, faccio la presentazione in italiano. Leggo ad alta voce il mio pezzo su vincitori e vinti. Vedo il testo inglese in blu sulla sinistra, quello italiano, in nero, sulla destra. L’inglese è muto, abbastanza tranquillo. Stampati, rilegati, i fratelli si tollerano. Sono, almeno per il momento, in tregua.

  Dopo la lettura comincia una conversazione tra me e due scrittori italiani. C’è anche un’interprete seduta accanto a noi per tradurre in inglese ciò che stiamo dicendo. Dopo qualche frase mi fermo, poi parla lei. Quest’eco in inglese è una cosa incredibile, fantastica: è sia un circolo compiuto sia un rovesciamento totale. Ne sono stupefatta, commossa. Penso a Mantova tredici anni fa e all’interprete senza il quale non potevo esprimermi in italiano davanti al pubblico. Non pensavo che avrei mai raggiunto questo traguardo.

  Ascoltando la mia interprete, mi fido per la prima volta del mio italiano. Sebbene rimanga per sempre il fratello minore, il mingherlino se la cava. Grazie al primogenito riesco a vedere il secondo, ad ascoltarlo, perfino ad ammirarlo un po’.

  IL SECONDO ESILIO

  Dopo aver trascorso un anno a Roma torno per un mese in America. Lì, subito, sento la mancanza dell’italiano. Non poterlo parlare e ascoltare ogni giorno mi angoscia. Quando vado nei ristoranti, nei negozi, in spiaggia, m’infastidisco: come mai la gente non parla italiano? Non voglio interagire con nessuno. Provo un sentimento di nostalgia struggente.

  Tutto ciò che ho assorbito a Roma sembra assente. Torniamo alla metafora materna. Penso alle prime occasioni in cui ho dovuto lasciare i miei figli a casa, appena dopo la nascita. Provavo, all’epoca, un’ansia tremenda. Mi sentivo in colpa, anche se questi brevi momenti di separazione erano normali, importanti sia per me sia per loro. È stato importante stabilire che i nostri corpi, fino allora vincolati, erano indipendenti. Eppure, ora come allora, sono acutamente consapevole di un distacco fisico, doloroso. Come se una parte di me non ci fosse più.

  Mi rendo conto della lontananza. Di un silenzio opprimente, insopportabile.

  Ogni giorno la mancanza dell’italiano mi colpisce sempre di più. Temo di aver già dimenticato tutto ciò che ho imparato. Temo di subire un annientamento. Immagino un vortice divorante, tutte le parole che spariscono nell’oscurità. Faccio sul taccuino una lista di verbi in italiano che indicano l’atto di andarsene: scomparire, svanire, sbiadire, sfumare, finire. Evaporare, svaporare, svampire. Perdersi, dileguarsi, dissolversi. So che alcuni sono sinonimi di morire.

  Soffro, finché non mi chiama, un pomeriggio a Cape Cod, una giornalista da Milano, per intervistarmi. Non vedo l’ora che squilli il telefono, ma mentre parlo con lei mi preoccupo che il mio italiano suoni già imbranato, che la mia lingua sia già fuori allenamento. Una lingua straniera è un muscolo gracile, schizzinoso. Se non lo si usa, s’indebolisce. Il mio italiano, in America, mi suona stonato, trapiantato. Il modo di parlare, i suoni, i ritmi, le cadenze, sembrano sradicati, disambientati. Le parole sembrano senza rilevanza, senza una presenza significativa. Sembrano naufraghe, nomadi.

  In America, quando ero giovane, i miei genitori mi parevano sempre in lutto per qualcosa. Ora capisco: doveva essere la lingua. Quarant’anni fa non era facile, per loro, sentire le famiglie al telefono. Aspettavano la posta. Non vedevano l’ora che arrivasse una lettera da Calcutta, scritta in bengalese. La leggevano cento volte, la conservavano. Quelle lettere rievocavano la loro lingua e rendevano presente una vita scomparsa. Quando la lingua con cui ci si identifica è lontana, si fa di tutto per tenerla viva. Perché le parole riportano tutto: il luogo, la gente, la vita, le strade, la luce, il cielo, i fiori, i rumori. Quando si vive senza la propria lingua ci si sente senza peso e, allo stesso tempo, sovraccarichi. Si respira un altro tipo d’aria, a una diversa altitudine. Si è sempre consapevoli della differenza.

  In America, dopo aver vissuto solo un anno in Italia, mi sento un po’ così. Eppure qualcosa non mi quadra. Non sono italiana, non sono neanche bilingue. L’italiano rimane per me una lingua imparata da adulta, coltivata, covata.

  Un giorno a Cape Cod mi trovo a una vendita di libri di seconda mano, all’aperto, in una specie di piazzetta. Ci sono, sull’erba, tanti tavoli pieghevoli colmi di libri di ogni tipo. Costano pochissimo. Di solito amo frugare per un’oretta e comprare un sacco di cose. Questa volta, però, non voglio comprare niente, perché tutti i libri sono in inglese. Sentendomi disperata, ne cerco uno in italiano. C’è perfino qualche scatola dedicata ai libri stranieri. Vedo un dizionario tedesco malconcio, dei romanzi francesi sbrindellati, ma non trovo nulla in italiano. Mi attrae solo una guida turistica dell’Italia scritta in inglese, l’unica cosa che compro, solo perché mi fa pensare al rientro a Roma a fine agosto. Tutti gli altri libri, perfino una copia di uno dei miei romanzi, mi lasciano indifferente. Come se fossero scritti in una lingua straniera.

  Ora avverto una doppia crisi. Da un lato mi rendo conto dell’oceano, in ogni senso, tra me e l’italiano. Dall’altro, del distacco tra me e l’inglese. Me ne ero già accorta in Italia, traducendo me stessa. Ma penso che un allontanamento sentimentale sia sempre più spiccato, più lancinante quando, nonostante la prossimità, resta una voragine.

  Perché non mi sento più a casa in inglese? Come mai non mi rincuora la lingua in cui ho imparato a leggere, a scrivere? Cosa è successo, e cosa significa? Lo straniamento, il disincanto che provo mi confonde, mi turba. Più che mai mi sento una scrittrice senza una lingua definitiva, senza origine, senza definizione. Se sia un vantaggio o uno svantaggio, non saprei.

  A metà del mese vado a trovare la mia insegnante veneziana, a Brooklyn. Questa volta non facciamo nessuna lezione, solo una lunga chiacchierata. Parliamo di Roma, della sua famiglia e della mia. Le porto una scatola di biscottini, le faccio vedere delle foto della mia nuova vita. Lei mi regala alcuni dei suoi libri, in edizione tascabile, presi dagli scaffali: i racconti di Calvino, di Pavese, di Silvio d’Arzo. Le poesie di Ungaretti. È l’ultima volta che vengo qui. La mia insegnante sta per trasferirsi, sta per lasciare Brooklyn. Ha già venduto la casa in cui ha vissuto per parecchi anni, dove facevamo le nostre lezioni. Sta per imballare tutto per il trasloco. D’ora in poi quando tornerò in America, a Brooklyn, non la vedrò più.

  Torno a casa con un piccolo mucchio di libri italiani, grazie ai quali, nonostante la malinconia che mi pervade, riesco a tranquillizzarmi. In questo periodo di silenzio, di isolamento linguistico, solo un libro può rassicurarmi. I libri sono i mezzi migliori – privati, discreti, affidabili – per scavalcare la realtà.

  Leggo in italiano ogni giorno, ma non scrivo. In America divento passiva. Anche se ho portato i dizionari, i quaderni e i taccuini, non riesco a scrivere neanche una parola in italiano. Non descrivo nulla nel diario, non me la sento. Per quanto riguarda la scrittura, rimango inattiva. Come se mi ritrovassi in una sala d’attesa creativa, non faccio altro che aspettare.

  Finalmente, a fine agosto, all’aeroporto, all’imbarco, sono circondata di nuovo dall’italiano. Vedo tutti gli italiani che stanno per tornare al loro Paese dopo le vacanze a New York. Sento le loro chiacchiere. All’inizio provo sollievo, gioia. Subito dopo mi accorgo di non essere come loro. Sono diversa, così come ero diversa dai miei genitori quando andavamo in vacanza dagli Stati Uniti a Calcutta. Non torno a Roma per raggiungere la mia lingua. Torno per continuare a corteggiarne un’altra.

  Chi non appartiene a n
essun posto specifico non può tornare, in realtà, da nessuna parte. I concetti di esilio e di ritorno implicano un punto di origine, una patria. Senza una patria e senza una vera lingua madre, io vago per il mondo, anche dalla mia scrivania. Alla fine mi accorgo che non è stato un vero esilio, tutt’altro. Sono esiliata perfino dalla definizione di esilio.

  IL MURO

  C’è una trafittura in ogni gioia. In ogni passione folgorante, un lato cupo.

  Il secondo anno a Roma, dopo Natale, vado con la mia famiglia a vedere Paestum, e poi ci fermiamo, per un paio di giorni, a Salerno. Lì, nel centro storico, nella vetrina di un negozietto, mi capita di vedere dei vestiti carini per i bambini. Entro con mia figlia. Mi rivolgo alla commessa. La saluto e le dico che sto cercando dei pantaloni per mia figlia. Descrivo quello che ho in mente, suggerisco dei colori che andrebbero bene, aggiungo che a mia figlia non piacciono i modelli troppo stretti, che preferirebbe qualcosa di comodo. Insomma, parlo abbastanza a lungo con questa commessa, in un italiano ormai scorrevole ma non del tutto autentico.

  A un certo punto entra mio marito con nostro figlio. A differenza di me, mio marito, un americano, dall’aspetto potrebbe sembrare un italiano. Lui e io scambiamo qualche parola, sempre in italiano, davanti alla commessa. Gli faccio vedere un giubbotto scontato, che sto considerando per nostro figlio. Lui risponde a monosillabi: va bene, mi piace, sì, vediamo. Nemmeno una frase intera. Mio marito parla lo spagnolo alla perfezione, quindi tende a parlare l’italiano con un accento spagnolo. Dice sessenta y uno invece di sessantuno, bellessa invece di bellezza, nunca invece di mai, per cui i nostri figli lo prendono in giro. Parla bene l’italiano, mio marito, ma non lo parla meglio di me.

  Decidiamo di comprare due paia di pantaloni più il giubbotto. Alla cassa, mentre sto pagando, la commessa mi chiede: «Da dove venite?»

  Le spiego che abitiamo a Roma, che ci siamo trasferiti in Italia lo scorso anno da New York. A quel punto la commessa dice: «Ma tuo marito deve essere italiano. Lui parla perfettamente, senza nessun accento».

  Ecco il confine che non riuscirò mai a varcare. Il muro che rimarrà per sempre tra me e l’italiano, per quanto bene possa impararlo. Il mio aspetto fisico.

  Mi viene da piangere. Vorrei urlare: «Sono io che amo perdutamente la vostra lingua, mio marito no. Lui parla italiano solo perché ne ha bisogno, perché gli capita di vivere qui. Sto studiando la vostra lingua da più di vent’anni, lui nemmeno da due. Non leggo altro che la vostra letteratura. Riesco ormai a parlare in italiano in pubblico, a fare interviste radiofoniche in diretta. Tengo un diario italiano, scrivo dei racconti».

  Non dico niente alla commessa. La ringrazio, la saluto, poi esco. Capisco che il mio attaccamento all’italiano non vale niente. Che tutta la mia devozione, tutta la foga non significano nulla. Secondo questa commessa, mio marito sa parlare benissimo l’italiano, va lodato; io no. Mi sento umiliata, indignata, invidiosa. Sono senza parole. Dico finalmente a mio marito, in italiano, quando siamo per strada: «Sono sbalordita».

  E mio marito mi chiede, in inglese: «Cosa vuol dire, sbalordita?»

  L’episodio di Salerno è soltanto un esempio del muro che affronto ripetutamente in Italia. Per colpa del mio aspetto fisico, sono percepita come una straniera. È vero, lo sono. Ma essendo una straniera che parla bene l’italiano, ho due esperienze linguistiche, notevolmente diverse, in questo Paese.

  Quelli che mi conoscono mi parlano in italiano. Loro apprezzano che io capisca la loro lingua, la condividono volentieri con me. Quando parlo in italiano con i miei amici italiani mi sento immersa nella lingua, accolta, accettata. Prendo parte alla lingua: nel teatro dell’italiano parlato credo di aver anch’io un ruolo, una presenza. Con gli amici riesco a discutere per ore, a volte per giorni, senza dover contare su nessuna parola inglese. Sono nel mezzo del lago e sto nuotando a modo mio con loro.

  Ma quando vado in un negozio come quello di Salerno mi ritrovo, bruscamente, lanciata sulla sponda. Quelli che non mi conoscono, guardandomi, presuppongono che io non sappia parlare l’italiano. Quando mi rivolgo loro in italiano, quando chiedo qualcosa (una testa d’aglio, un francobollo, l’ora), dicono, perplessi: «Non ho capito». È sempre la stessa risposta, lo stesso cipiglio. Come se il mio italiano fosse un’altra lingua.

  Non mi capiscono perché non vogliono capirmi; non vogliono capirmi perché non vogliono ascoltarmi, non vogliono accettarmi. Il muro funziona così. Quando qualcuno non mi capisce può ignorarmi; non deve tenere conto di me. Queste persone mi guardano ma non mi vedono. Non apprezzano che io fatichi per parlare la loro lingua, anzi, questo li infastidisce. A volte, quando parlo italiano in Italia, mi sento rimproverata, come un bambino che tocca un oggetto che non va toccato. «Non toccare la nostra lingua» alcuni italiani sembrano dirmi. «Non appartiene a te.»

  Imparare una lingua straniera è il modo essenziale per integrarsi con gente nuova in un nuovo Paese. Rende possibile un rapporto. Senza la lingua non ci si può sentire una presenza legittima, rispettata. Si rimane senza voce, senza potere. Non si trova, nel muro, alcuna fessura, alcun punto di entrata. So che se rimanessi in Italia per il resto della mia vita, anche se riuscissi a parlare italiano in modo forbito, irreprensibile, resterebbe, per me, questo muro. Penso a chi è nato e cresciuto in Italia, che considera l’Italia la sua patria, che parla l’italiano perfettamente, ma che sembra, agli occhi di alcuni italiani, «straniero».

  Mio marito si chiama Alberto. Per lui, basta stendere la mano, basta dire: «Piacere, sono Alberto». Grazie al suo aspetto, grazie al nome, tutti pensano che sia italiano. Quando faccio io la stessa cosa, le stesse persone dicono: «Nice to meet you». Quando continuo a parlare in italiano, mi chiedono: «Ma come mai parli così bene l’italiano?» E devo fornire una spiegazione, devo dire il perché. Il fatto che parli italiano sembra loro una cosa insolita. Nessuno rivolge la stessa domanda a mio marito.

  Una sera, sto per presentare il mio ultimo romanzo in una libreria a Roma, nel quartiere Flaminio. Sono preparata a dialogare con una mia amica italiana – una scrittrice anche lei – su vari spunti letterari. Prima che inizi la presentazione, un uomo, che io e mio marito abbiamo appena conosciuto, mi chiede se farò la presentazione in inglese. Quando gli rispondo, in italiano, che intendo farla in italiano, mi chiede se ho imparato la lingua da mio marito.

  In America, sebbene io parli l’inglese come una madrelingua, pur essendo considerata una scrittrice americana, incontro lo stesso muro, ma per motivi diversi. Ogni tanto, a causa del mio nome, del mio aspetto, qualcuno mi chiede come mai ho scelto di scrivere in inglese piuttosto che nella mia lingua madre. Chi mi incontra per la prima volta – quando mi vede, poi impara il nome, poi sente la maniera in cui parlo inglese – mi chiede da dove vengo. Devo giustificare la lingua in cui parlo, anche se la conosco alla perfezione. Se non parlo, anche tanti americani credono che io sia una straniera. Mi ricordo un tizio, un giorno, per strada, che voleva darmi un volantino pubblicitario. Stavo tornando da una biblioteca a Boston; all’epoca stavo scrivendo la mia tesi di dottorato sulla letteratura inglese del diciassettesimo secolo. Quando ho rifiutato di prendere il volantino, il tizio mi ha gridato: «What the fuck is your problem, can’t speak English?»

  Non posso evitare il muro neanche in India, a Calcutta, nella città della mia cosiddetta lingua madre. Lì, a parte i miei parenti che mi conoscono da sempre, quasi tutti pensano che io, nata e cresciuta fuori dall’India, parli solo inglese, o che capisca appena il bengalese. Nonostante il mio aspetto e il nome indiano, si rivolgono a me in inglese. Quando rispondo in bengalese, esprimono la stessa sorpresa di certi italiani, di certi americani. Nessuno, da nessuna parte, dà per scontato che io parli le lingue che sono una parte di me.

  Sono una scrittrice: mi identifico a fondo con la lingua, lavoro con essa. Eppure il muro mi tiene a distanza, mi separa. Il muro è qualcosa di inevitabile. Mi circonda ovunque vada, per cui mi chiedo se forse il muro non sia io.

  Scrivo per rompere il muro, per esprimermi in modo puro. Quando scrivo non c’entra il mio aspetto, il mio nome. Vengo ascoltata senza esse
re vista, senza pregiudizi, senza filtro. Sono invisibile. Divento le mie parole, e le parole diventano me.

  Quando scrivo in italiano devo accettare un secondo muro, altissimo, ancora più ermetico: il muro della lingua in sé. Ma dal punto di vista creativo questo muro linguistico, per quanto esasperante, m’interessa, mi ispira.

  Un ultimo esempio: un giorno a Roma vado a pranzo con il mio editore italiano e sua moglie all’Hotel d’Inghilterra. Parliamo della pubblicazione del mio ultimo romanzo in Italia, e di cosa sto scrivendo ora, del mio desiderio di scrivere qualcosa sul mio rapporto con la lingua italiana. Parliamo di Anna Maria Ortese e di altri autori italiani che mi piacerebbe tradurre. Il mio editore mi sembra entusiasta di questi nuovi progetti che ho in mente. Dice che quel che vorrei fare – scrivere, per il momento, in italiano – gli sembra una buona idea.

  Dopo pranzo, nella vetrina di un negozio di scarpe e borse in via del Corso, vedo qualcosa di bello. Entro nel negozio. Questa volta non dico nulla. Taccio. Ma la commessa, vedendomi, chiede subito: «May I help you?» Quattro parole garbate che, ogni tanto in Italia, mi spezzano il cuore.

  IL TRIANGOLO

  Vorrei soffermarmi sulle tre lingue che conosco. A questo punto mi serve un resoconto del mio rapporto con ciascuna, e dei collegamenti tra loro.

  Il primo idioma della mia vita è stato il bengalese, tramandato dai miei genitori a me. Per quattro anni, finché non sono andata a scuola in America, è stata la mia lingua principale, in cui mi sono sentita a mio agio, anche se sono nata e cresciuta in Paesi in cui mi circondava un’altra lingua: l’inglese. Il mio primo incontro con l’inglese è stato duro, sgradevole: quando sono stata mandata all’asilo sono rimasta traumatizzata. Mi era difficile fidarmi delle maestre e fare amicizie, perché dovevo esprimermi in una lingua che non parlavo, che conoscevo a malapena, che mi sembrava estranea. Volevo soltanto tornare a casa, alla lingua in cui ero conosciuta, ero amata.

 
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