In Other Words by Jhumpa Lahiri


  Qualche anno dopo, però, il bengalese ha fatto un passo indietro, quando sono diventata una lettrice. Avevo sei o sette anni. Da allora la mia lingua madre non è stata più capace, da sola, di crescermi. In un certo senso è morta. È arrivato l’inglese, una matrigna.

  Sono diventata una lettrice appassionata per conoscere la matrigna, per decifrarla, per soddisfarla. Eppure la lingua madre rimaneva un fantasma esigente, ancora presente. I miei genitori volevano che io parlassi soltanto il bengalese con loro e con tutti i loro amici. Se parlavo inglese a casa mi rimproveravano. La parte di me che parlava inglese, che andava a scuola, che leggeva e scriveva, era un’altra persona.

  Non riuscivo a identificarmi con nessuna delle due. Una era sempre celata dietro l’altra, ma mai completamente, così come la luna piena può nascondersi quasi tutta la notte dietro una massa di nuvole per poi emergere di colpo, abbagliante. Nonostante parlassi soltanto il bengalese con i miei, c’era sempre l’inglese nell’aria, per la strada, sulle pagine dei miei libri. D’altro canto, ogni giorno, dopo aver parlato in inglese per parecchie ore in aula, tornavo a casa, un luogo dove l’inglese non c’era. Mi rendevo conto di dover parlare entrambe le lingue benissimo: l’una per compiacere i miei genitori, l’altra per sopravvivere all’America. Restavo sospesa, combattuta tra queste due lingue. L’andirivieni linguistico mi scompigliava; mi sembrava una contraddizione che non potevo risolvere.

  Non andavano d’accordo, queste due mie lingue. Mi sembravano avversarie incompatibili, l’una insofferente all’altra. Pensavo che non avessero nulla in comune tranne me, per cui mi sentivo una contraddizione in termini anch’io.

  Per la mia famiglia l’inglese rappresentava una cultura straniera alla quale non voleva arrendersi. Il bengalese rappresentava la parte di me che apparteneva ai miei genitori, che non apparteneva all’America. Nessuna mia maestra a scuola, nessuna mia amica è stata mai incuriosita dal fatto che io parlassi un’altra lingua. Non lo apprezzavano, non mi chiedevano niente. Non gli interessava, come se quella parte di me, quella capacità, non ci fosse. Così come l’inglese per i miei genitori, il bengalese, per gli americani che conoscevo da ragazza, rappresentava una cultura remota, sconosciuta, sospetta. O forse in realtà non rappresentava niente. A differenza dei miei, che conoscevano bene l’inglese, gli americani erano del tutto inconsapevoli della lingua che parlavamo a casa. Per loro il bengalese era qualcosa che potevano tranquillamente ignorare.

  Più leggevo e imparavo in inglese più mi identificavo, da ragazza, con esso. Cercavo di essere come le mie amiche, che non parlavano nessun’altra lingua. Che avevano, secondo me, una vita normale. Mi vergognavo di dover parlare in bengalese davanti alle mie compagne americane. Odiavo sentire mia madre al telefono se mi capitava di essere da una mia amica. Volevo occultare, quanto più possibile, il mio rapporto con quella lingua. Volevo negarlo.

  Mi vergognavo di parlare bengalese, e al contempo mi vergognavo di provare vergogna. Non era possibile parlare in inglese senza avvertire un distacco dai miei genitori, senza provare una sensazione inquietante di separazione. Parlando in inglese, mi trovavo in uno spazio in cui mi sentivo isolata, in cui non ero più sotto la loro protezione.

  Vedevo le conseguenze del non parlare l’inglese alla perfezione, di parlarlo con un accento straniero. Vedevo il muro che i miei genitori affrontavano quasi ogni giorno in America. Era una loro insicurezza persistente. Dovevo spiegare il significato di alcuni termini a loro, come se fossi io il genitore. A volte parlavo per loro. Nei negozi americani i commessi tendevano a rivolgersi a me, semplicemente perché non avevo, in inglese, un accento straniero. Come se mio padre e mia madre, con il loro accento, non potessero capire. Detestavo l’atteggiamento di quei commessi nei confronti dei miei genitori. Volevo difenderli. Avrei voluto protestare: «Loro capiscono tutto quello che dite, mentre voi non siete capaci di capire nemmeno una parola né del bengalese né di nessun’altra lingua al mondo». Eppure dava fastidio anche a me se i miei pronunciavano una parola inglese in modo sbagliato. Li correggevo, impertinente. Non volevo che fossero vulnerabili. Non mi piaceva il mio vantaggio, il loro svantaggio. Avrei voluto che parlassero l’inglese esattamente come me.

  Ho dovuto giostrarmi tra queste due lingue finché, a circa venticinque anni, non ho scoperto l’italiano. Non c’era alcun bisogno di imparare questa lingua. Nessuna pressione familiare, culturale, sociale. Nessuna necessità.

  L’arrivo dell’italiano, il terzo punto sul mio percorso linguistico, crea un triangolo. Crea una forma anziché una linea retta. Un triangolo è una struttura complessa, una figura dinamica. Il terzo punto cambia la dinamica di questa vecchia coppia litigiosa. Io sono figlia di quei punti infelici, ma il terzo non nasce da loro. Nasce dal mio desiderio, dalla mia fatica. Nasce da me.

  Credo che studiare l’italiano sia una fuga dal lungo scontro, nella mia vita, tra l’inglese e il bengalese. Un rifiuto sia della madre sia della matrigna. Un percorso indipendente.

  Dove mi porta, questo nuovo tragitto? Dove finisce la fuga, e quando? Dopo essere fuggita, cosa farò? In realtà non è una fuga nel senso stretto della parola. Pur fuggendo, mi accorgo che sia l’inglese sia il bengalese mi affiancano. Così come in un triangolo, un punto conduce inevitabilmente all’altro.

  L’inglese e l’italiano sembrano i punti più vicini. Avendo in comune molte parole di origine latina, condividono un certo territorio. Inutile dire che mi capita spesso in italiano di incontrare una parola che conosco già grazie all’equivalente inglese. Non posso negare che la mia comprensione dell’inglese mi aiuti. Ma può anche ingannarmi. Ogni tanto penso di capire il significato di una parola in italiano grazie alla radice latina, ma quando devo definirla mi sbaglio, e mi rendo conto di non aver imparato bene il significato neanche in inglese. La mia comprensione dell’italiano più cresce, più svela una debolezza anche in inglese. Il processo approfondisce la mia comprensione di entrambe le lingue, per cui la fuga mi sembra anche un ritorno.

  Al di là della comune radice indoeuropea, il bengalese e l’italiano sembrano due punti molto più distanti di quanto siano l’italiano e l’inglese. Hanno, per quanto ne sappia, solo una parola dal significato in comune: gola. In bengalese si dice chi per che, e che per significare chi. Sono sciocchezze. Eppure il bengalese mi aiuta in un altro modo. Grazie al fatto che sono cresciuta parlando bengalese, non parlo l’italiano con un accento anglofono. Per quanto riguarda la pronuncia dell’italiano, ho una lingua già adattata, condizionata. Riconosco tutte le consonanti, le vocali, i dittonghi italiani; li trovo naturali. Dal punto di vista fonetico, trovo il bengalese molto più vicino all’italiano rispetto all’inglese. Devo ammettere, dunque, che in questa fuga, per certi versi, anche il bengalese mi accompagna, mi aiuta.

  Da dove viene l’impulso di introdurre una terza lingua nella mia vita, di creare questo triangolo? Come appare? È un triangolo equilatero, o no?

  Se lo disegnassi userei una penna per rendere il lato inglese, una matita per gli altri due. L’inglese rimane la base, il lato più stabile, fisso. Il bengalese e l’italiano sono entrambi più deboli, indistinti. L’uno ereditato, l’altro adottato, voluto. Il bengalese è il mio passato, l’italiano, magari, una nuova stradina nel futuro. La mia prima lingua è la mia origine, l’ultima, il traguardo. In entrambe mi sento una bambina, un po’ goffa.

  Temo che i lati a matita possano sparire, così come un disegno può essere cancellato da una gomma. Il bengalese sarà portato via quando non ci saranno più i miei genitori. È una lingua che loro personificano, che loro incarnano. Quando saranno morti, cesserà di essere fondamentale nella mia vita.

  L’italiano resta una lingua esterna. Potrebbe sparire anche quella, soprattutto quando dovrò lasciare l’Italia, se non continuerò a coltivarla.

  L’inglese rimane il presente: permanente, indelebile. La matrigna non mi abbandona. Per quanto sia una lingua imposta, mi ha regalato una voce pulita, corretta, per sempre.

  Penso che questo triangolo sia una specie di cornice. E che questa cornice contenga il mio autoritratto. La cornice mi definisce, ma c
osa contiene?

  Per tutta la mia vita ho voluto vedere, dentro la cornice, qualcosa di specifico. Volevo che dentro la cornice ci fosse uno specchio capace di riflettere un’immagine precisa, nitida. Volevo vedere una persona integra anziché frammentata. Ma questa persona non c’era. Per colpa della mia doppia identità vedevo solo oscillazione, distorsione, dissimulazione. Vedevo qualcosa di ibrido, di sfocato, di sempre confuso.

  Penso che non poter vedere un’immagine specifica dentro la cornice sia il rovello della mia vita. L’assenza dell’immagine che cercavo mi pesa. Ho paura che lo specchio non rifletta altro che un vuoto, che non rifletta nulla.

  Vengo da questo vuoto, da questa incertezza. Credo che il vuoto sia la mia origine e anche il mio destino. Da questo vuoto, da tutta questa incertezza, viene l’impulso creativo. L’impulso di riempire la cornice.

  LA METAMORFOSI

  Poco prima che iniziassi a scrivere queste riflessioni ho ricevuto un’email da un mio amico a Roma, lo scrittore Domenico Starnone. Riferendosi al mio desiderio di appropriarmi dell’italiano, ha scritto: «Una lingua nuova è quasi una vita nuova, grammatica e sintassi ti rifondono, scivoli dentro un’altra logica e un altro sentimento». Quanto mi hanno rinfrancato queste parole. Sembravano echeggiare il mio stato d’animo dopo essere arrivata a Roma e dopo aver cominciato a scrivere in italiano. Contenevano tutta la mia smania, tutto il mio spaesamento. Leggendo questo messaggio, ho capito meglio il desiderio di esprimermi in una nuova lingua: riuscire a sottopormi, da scrittrice, a una metamorfosi.

  Nello stesso periodo in cui ho ricevuto questo messaggio, qualcuno mi ha chiesto, durante un’intervista, quale fosse il mio libro preferito. Ero a Londra, su un palco con cinque altri scrittori. Di solito mi secca, questa domanda: non esiste, per me, nessun libro definitivo, perciò non so mai come rispondere. Questa volta, però, sono riuscita a rispondere senza alcuna esitazione che il mio libro preferito era Le metamorfosi di Ovidio. Lo considero un testo maestoso, un poema che riguarda tutto, che rispecchia tutto. L’ho letto per la prima volta venticinque anni fa, in latino. Ero una studentessa universitaria negli Stati Uniti. È stato un incontro indimenticabile, forse la lettura più soddisfacente della mia vita. Per raggiungere questo poema ho dovuto ostinarmi, traducendo ogni parola. Ho dovuto dedicarmi a una lingua straniera, antica, esigente. Eppure la scrittura di Ovidio mi ha conquistata, ne sono rimasta ammaliata. Ho scoperto un’opera sublime, in un linguaggio vivo, trascinante. Come ho già detto, credo che leggere in una lingua straniera sia il modo più intimo di leggere.

  Mi ricordo come se fosse ieri il momento in cui Dafne, la ninfa, si trasforma in un albero di alloro. Sta fuggendo da Apollo, il dio incalzante che la desidera. Lei vorrebbe restare sola, casta, dedita, come la vergine Diana, al bosco e alla caccia. La ninfa, stremata, incapace di sfuggire al dio, supplica suo padre Peneo, una divinità fluviale, di aiutarla. Scrive Ovidio: «Ha appena finito questa preghiera, che un pesante torpore le pervade le membra, il tenero petto si fascia di una fibra sottile, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; il piede, poco prima così veloce, resta inchiodato da pigre radici, il volto svanisce in una cima». Quando Apollo poggia la mano sul tronco di quest’albero «sente il petto trepidare ancora sotto la corteccia fresca».

  La metamorfosi è un processo sia violento che rigenerativo, sia una morte che una nascita. Non è chiaro dove finisca la ninfa e dove inizi l’albero; il bello di questa scena è che raffigura la fusione di due elementi, di entrambi gli esseri. Si vedono, una accanto all’altra, le parole che descrivono sia Dafne che l’albero (nel testo latino frondem/crines, ramos/bracchia, cortice/pectus). La contiguità di queste parole, una giustapposizione letterale, rinforza lo stato di contraddizione, di intrecciamento. Ci dà una duplice impressione, spiazzante. Esprime il concetto nel senso mitico, direi primordiale, di essere due cose allo stesso tempo. Di essere qualcosa di indistinto, di ambiguo. Di avere una doppia identità.

  Finché non si è trasmutata, Dafne corre per salvarsi la vita. Adesso sta ferma, non riesce più a muoversi. Apollo può toccarla ma non può possederla. Per quanto sia crudele, la metamorfosi è la sua salvezza. Da un lato perde la sua indipendenza. Dall’altro, come albero, si ferma per sempre nel bosco, il luogo che le è proprio, in cui si gode un altro tipo di libertà.

  Come ho detto prima, penso che la mia scrittura in italiano sia una fuga. Sviscerando la mia metamorfosi linguistica, mi rendo conto che sto cercando di allontanarmi da qualcosa, di emanciparmi. Dopo aver scritto in italiano per quasi due anni mi sento già trasformata, quasi rinata. Ma il cambiamento, questa nuova apertura, costa: come Dafne, anch’io mi trovo inchiodata. Non riesco a muovermi come prima, nello stesso modo in cui ero abituata a muovermi in inglese. Ora una nuova lingua, l’italiano, mi copre come una specie di corteccia. Resto dentro: rinnovata, incastrata, sollevata, scomoda.

  Come mai sto fuggendo? Cosa m’insegue? Chi vorrebbe trattenermi?

  La risposta più ovvia sarebbe: la lingua inglese. Ma ritengo che non sia tanto l’inglese in sé quanto tutto ciò che ha simboleggiato per me. Per quasi tutta la mia vita ha rappresentato una lotta estenuante, un conflitto struggente, un continuo senso di fallimento da cui deriva quasi tutta la mia angoscia. Ha rappresentato una cultura da dover scalare, da interpretare. Temevo che rappresentasse una spaccatura tra me e i miei genitori. L’inglese significa un aspetto del mio passato pesante, ingombrante. Ne sono stanca.

  Eppure, ne ero innamorata. Sono diventata una scrittrice in inglese. E poi, in modo piuttosto precipitoso, sono diventata una scrittrice famosa. Ho ricevuto un premio che ero convinta di non meritare, che mi sembrava uno sbaglio. Per quanto sia stato un onore, ne sono rimasta insospettita. Non sono riuscita a unirmi a quel riconoscimento, che ha cambiato la mia vita. Da allora in poi sono stata considerata un’autrice di successo, per cui ho smesso di sentirmi un’apprendista, sconosciuta, quasi anonima. Tutta la mia scrittura scaturisce da un luogo nel quale mi sento invisibile, inaccessibile. Ma un anno dopo la pubblicazione del mio primo libro ho perso il mio anonimato.

  Scrivendo in italiano, penso di fuggire sia i miei fallimenti nei confronti dell’inglese sia il mio successo. L’italiano mi offre un percorso letterario ben diverso. In quanto scrittrice posso smantellarmi, posso ricostruirmi. Posso radunare parole e lavorare alle frasi senza mai essere considerata un’esperta. Fallisco per forza quando scrivo in italiano, ma a differenza del mio senso di fallimento nel passato, non ne resto tormentata, amareggiata.

  Se dico che ora sto scrivendo in una nuova lingua, molti reagiscono male. Negli Stati Uniti, alcuni mi consigliano di non farlo. Dicono che non vogliono leggermi tradotta da una lingua straniera. Non vogliono che io cambi. In Italia, anche se tanti mi incoraggiano a fare questo passo e mi sostengono, mi viene chiesto tuttavia come mai io abbia voglia di scrivere in una lingua letta, nel mondo, molto meno di quanto lo sia l’inglese. Alcuni dicono che la mia rinuncia all’inglese potrebbe essere rovinosa, che la mia fuga potrebbe condurmi in una trappola. Non capiscono la ragione per cui voglio correre un tale rischio.

  Non mi stupiscono, le loro reazioni. Una trasformazione, soprattutto se è voluta, cercata, è spesso percepita come qualcosa di sleale, di minaccioso. Sono figlia di una madre che non ha voluto mai cambiare se stessa. Continuava negli Stati Uniti, il più possibile, a vestirsi, comportarsi, mangiare, pensare, vivere come se non avesse mai lasciato l’India, Calcutta. Il rifiuto di modificare il suo aspetto, le sue abitudini, i suoi atteggiamenti, era la sua strategia per resistere alla cultura americana, soprattutto per combatterla, per mantenere la sua identità. Diventare o perfino somigliare a un’americana avrebbe significato una sconfitta totale. Quando torna a Calcutta, mia madre si sente orgogliosa perché, anche se ha passato quasi cinquant’anni lontano dall’India, sembra una che è sempre rimasta lì.

  Io sono il contrario. Mentre il rifiuto di cambiare era la ribellione di mia madre, la voglia di trasformarmi è la mia. «C’era una donna … che voleva essere un’altra persona»: non è un caso che Lo scambio, il mio primo racconto in italian
o, inizi con questa frase. Per tutta la vita ho provato ad allontanarmi dal vuoto della mia origine. Era il vuoto che mi sgomentava, da cui fuggivo. Ecco perché non ero mai soddisfatta di me. Alterare me stessa sembrava l’unica soluzione. Scrivendo, ho scoperto un modo di nascondermi nei miei personaggi, di eludermi. Di sottopormi a una mutazione dopo l’altra.

  Si potrebbe dire che il meccanismo metamorfico sia l’unico elemento della vita che non cambia mai. Il percorso di ogni individuo, di ogni Paese, di ogni epoca storica, dell’universo intero e tutto ciò che contiene, non è altro che una serie di mutamenti, a volte sottili, a volte profondi, senza i quali resteremmo fermi. I momenti di transizione, in cui qualcosa si tramuta, costituiscono la spina dorsale di tutti noi. Che siano una salvezza o una perdita, sono i momenti che tendiamo a ricordare. Danno un’ossatura alla nostra esistenza. Quasi tutto il resto è oblio.

  Credo che il potere dell’arte sia il potere di svegliarci, di colpirci fino in fondo, di cambiarci. Cosa cerchiamo leggendo un romanzo, guardando un film, ascoltando un brano di musica? Cerchiamo qualcosa che ci sposti, di cui non eravamo consapevoli, prima. Vogliamo trasformarci, così come il capolavoro di Ovidio ha trasformato me.

  Nel mondo animale una metamorfosi è qualcosa di previsto, di naturale. Vuol dire un passaggio biologico, fasi specifiche che conducono, alla fine, a uno sviluppo completo. Quando un bruco si è trasformato in farfalla non c’è più un bruco ma una farfalla. L’effetto della metamorfosi è radicale, permanente. Avendo perso la vecchia forma, ne assume una nuova, irriconoscibile. Rispetto alla creatura precedente ha nuovi tratti fisici, una nuova bellezza, nuove capacità.

 
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